17/03/2012 | rospe
propellente
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Itaca, mai più Itaca
«Misera
e crudele fra le donne le ho detto, gli dèi
ti fecero un cuore ostinato che ora disconosce l'uomo che
ha navigato nei mari tempestosi e corso pericoli di ogni sorta
per raggiungere il tetto coniugale. Dirò alla nutrice
di prepararmi un giaciglio appartato e non ti chiederò
di accogliermi nel letto che io stesso ho fabbricato con le
mie mani. A un cuore di pietra come il tuo non voglio chiedere
nulla perché so che nulla potrei ottenere, e non so
nemmeno più se lo desidero. Che restino dunque separati
i nostri destini. Aspetto solo che siano fabbricati i solidi
calzari che hai ordinato perché possa finalmente rimettermi
in viaggio sulle strade del mondo ora che ho liberato Telemaco
dalla turba degli usurpatori».
Luigi Malerba
(Itaca per sempre (1997), Mondadori,
Milano 1998, p. 145).
Passo la notte in compagnia di Telemaco, Eumeo, Melanzio
(ma più che altro penso alla bella Melanto, sfacciata
Mirandolina), avverto la presenza del fantasma di Ettore,
risuona il nome di Elena, e ancora e sempre Itaca. Mi addormento.
Risveglio, il giorno dopo: rimugino qualcosa.
Itaca teatro di ritorni e partenze, queste ultime altrettanto
desiderate dai due protagonisti borghesi di questa variante
ad uso scolastico. Desiderio di andare eppure si resta.
La storia si riduce a questo, niente più Polifemo,
Circe e Calipso. Un Ulisse che riflette (e si flette più
del suo leggendario arco), una Penelope che, stanca di aspettare,
scopre di non sapere più cosa. Se uno erra laltra
non sa compiere meglio la propria vendetta. In fondo la sua
vendetta di donna sarebbe anche giustificata: ma non è
contro i proci, è rivolta contro il coniuge, e non
per la montagna di colpe e sospetti. Né lambizione,
né lorgoglio hanno parte in questa farsa. Si
può dire che a darle respiro, profondità di
eroina, c'è un unico errore insanabile: sapere sin
dallinizio, sin da prima della partenza per Troia, che
alla fine si riprenderà in casa quel cencio duomo
che fu - che è - un eroe. Ed ecco la coppia: una donna
che cede, e un eroe in tempi in cui un eroe non si sa più
a cosa serva. E cè Itaca. Altro ci vuole per
governare Itaca: ci vogliono i muretti a secco, le strade
e lo scolo delle fogne. Ci vogliono giovani imprenditori,
da distogliere alle gozzoviglie e istradare al commercio.
Questo lo sa la pragmatica Penelope, potrebbe mai sospettarlo
lindolente Ulisse? È cosa certa. Dopo aver dato
sfogo alla frustrazione fatta la strage, ma non riportato
ordine il detronizzato Ulisse sa perfettamente che
niente è cambiato. Nessuno gli restituirà il
suo regno di sassi. Soprattutto sa bene che l'ordine naturale
delle cose lo vorrebbe trascinato altrove: riprendere la via
del mare, dei suoi traffici, tra i suoi simili, avventurieri,
affaristi della finanza piratesca, uomini pieni di nostalgia,
di lussuria e senza scrupoli.
Ma allora perché Ulisse e Penelope restano insieme?
Perché restano a Itaca? Tanto più che a breve
Telemaco li manderà allospizio. Restano insieme
perché sono cambiati, sono stati cambiati nel volgere
di qualche millennio e un centinaio di pagine: la loro storia
è diventata quella di un pensionamento.
Dopo questa lettura, dico addio a Itaca, troppo simile alla
mia Italia, alle sue coste massacrate, alla schiuma chimica
che inzacchera le spiagge e i rigagnoli, alle strade sgangherate
che franano, alla speculazione edilizia e a quella ideologica,
addio per sempre (ma so che tornerò, un giorno, a quella
di Omero).
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