13/09/2013 | rospe
propellente
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Teste di foggia italica
«A quel
tempo, Roma si presentava sdraiata, a letto o su un divano:
preferibilmente svestita, Dico, la Roma femminile. Gli uomini
vi si presentavano trionfanti, nellesempio del dominatore
il quale in quegli anni stava acquistando una testa fallica».
Corrado Alvaro
(Tutto è accaduto (1936),
citato in Domenico Scarpa, Storie avventurose di libri
necessari, Gaffi, Roma 2010, p. 53)).
Il libro che accoglie questo piccolo lacerto di scrittura
corrosiva di Corrado Alvaro ne ospita tanti altri tra le pagine
più necessarie su libri scritti da italiani e letti
da pochi, amati da meno, compresi solo quando capita, ma citati
spesso per manifesta ignoranza. Storie avventurose di libri
necessari è unesperienza avventurosa di per
sé, unopera ponderosa di scavo che riporta alla
luce parte del sommerso e parte di quello che luccica ma che
le nostre abitudini al consumo hanno reso opaco, come stoviglie
da tirare fuori dai cassetti solo in occasioni speciali: feste,
celebrazioni, compleanni ecc. È lavoro importante anche
quello di chi fa pulizia tra le cianfrusaglie, che nomina
la chincaglieria, che separa e unisce. Questo dovrebbero fare
i critici letterari: libri necessari. Ma visto che i critici
sono spesso ingranaggio di sistema, o apologisti o chiosatori
di chiose, ci si può domandare che fine faranno
i libri?, che fine hanno fatto? questi mattoni
della nostra cultura? Cè da chiedersi se non
spetti ad Astolfo fare di tanto in tanto un viaggio sulla
Luna per riportarci una desolata istantanea di ciò
che abbiamo smarrito, mentre piangiamo povertà. In
attesa che passi nuovamente dalle nostre parti il carro dElia
ci dobbiamo accontentare di spulciare tra gli scaffali asfittici
delle nostre bibliotechine, di sfogliare cataloghi ed elenchi
di pubblicazioni uscite fuori corso (come le vecchie banconote),
di frugare tra i cumuli dei robivecchi.
Abbiamo bisogno di nuovi eroi che ci traggano dimpaccio,
che manifestino il coraggio di addentrarsi negli archivi,
nei penetralia di biblioteche fatiscenti, che bussino a tutte
le porte, che emulino quelle figure leggendarie che a scuola
abbiamo conosciuto con il nome di umanisti: uno labbiamo
ancora, Domenico Scarpa, speleologo delle lettere, palombaro
del pensiero.
Ho sottomano almeno un libro frutto di questo dissennato
lavorio, che non è pietosa salvaguardia da conservatore
né un albero genealogico di vecchie glorie, è
una Santa Barbara pronta a esplodere nuovamente. Il libro
in questione ha una copertina verde (non bella, non particolarmente
attraente) ma che ha per illustrazione unincisione azzeccata:
un palombaro che con una lanterna fa luce negli abissi (Frank
J. Moore, 1887). Come vediamo la lanterna non fa molta luce,
lo scafandro non permette di guardarsi intorno liberamente.
Quindi il lavoro di chi affronta il territorio delle profondità
non è soltanto rischioso (un calamaro gigante indubbiamente
è in agguato a poca distanza...) ma è anche
una lotta costante con loscurità. Il tempo e
lossigeno, che già scarseggia, giocano contro.
Bisogna saper guardare e soprattutto saper trovare qualcosa,
il resto sarà bottino per la prossima immersione (se
verranno altri palombari).
469 pagine più indice dei nomi. Non mi decido subito
a leggere in ordinata successione le sue parti, spilucco,
saltello, vado a capriccio (incontro Stevenson, Schwob, Bassani,
F&L), poi mi avventuro. Resto per un po sul grigio Alvaro.
Come sempre Scarpa intreccia destini e letture le
sue e ne nasconde i capi per poi sciogliere i nodi
con un gesto solo, una frase, una citazione, una parola, un
inciampo, una finta, ma il trucco riesce sempre e lascia stupefatti.
Non si pensi però ad arte di prestigiatore, esercizio
da ciarlatano: per chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo cucire
un discorso a voce è chiaro che si tratta
senzaltro di arte da sarto, che al momento giusto fa
saltare limbastitura rivelando un abito più che
perfetto: un corpo nudo. Così è il suo procedere
anche nella scrittura, senza pudore, con acribia, punto per
punto, seguendo più trame, più diramazioni alla
volta, raccogliendo il viluppo in un filo solo, soggetto a
tensione spasmodica, che assottigliandosi si fa trasparente.
Cè anche lago da qualche parte, ma è
nascosto, guizza solo quel tanto per farti percepire che il
disegno cè.
Dopo aver letto, ascoltato, ragionato il pensiero di Scarpa
ispira il silenzio. Che senso avrebbe provare a riannodare
quello che ha sciolto? Eppure si è tentati, e questo
è il tipo di avventura che suggerisce, e si ripete
ad ogni pagina: prendere fiato e immergersi.
Torno alla citazione rubata ad Alvaro. Senza velleità
di scavo filologico o sensibilità di critico letterario,
noto una ricorrenza iconologica negli usi e costumi italici
che ci riguarda da vicino, e questo mi scalda a sufficienza
per azzardare un tuffo. Basterà accostare il Gran
sessuale di Alvaro con le tante immagini erototattili
del Gadda di Eros e Priapo, di Quer pasticciaccio
ecc. e provare a comparare le differenti rappresentazioni
del dominatore nostrano che si sono susseguite fino ad oggi.
Il capo, la testa degli italiani. Tutti gli italiani vogliono
essere dominatori e quindi dominati soltanto da una loro proiezione,
magari solo più in grande, più oscena, più
brutale, più becera. Questo è rassicurante.
Come si riconosce un vero capo? Come si fa riconoscere? Labito
già non fa più il monaco dai tempi di Manzoni,
tanto vale ununiforme: doppiopetto, gessato, pullover...
le hanno provate tutte, ma non basta labito. Il capo
è tutto testa, e vuole orpelli adeguati. Venuta meno
la corona lattributo del potere si fa fisiologico, ma
anche tautologico, niente può essere lasciato al caso
nella retorica visiva del potere stesso. Il capo è
il luogo del pensiero, il salvadanaio dei valori, la bocca
è laditon cavernoso da cui sgorga la voce, la
mascella deve garantire masticazioni prodigiose, gli occhi
sono i magneti attrattori, sonde sempre attive, le orecchie...
queste ci devono stare, ma sono poco usate e tendono ad essere
un vezzo (necessarie per tener su gli occhiali), spesso ricordano
virtù totemiche desunte dal mondo animale (suini o
equini, non a caso, i più gettonati).
La testa parla: ma cosa dice? come lo dice? Di sicuro non
sono le parole a parlare, questo limiterebbe la comprensione,
questo sarebbe dostacolo a raggiungere la pancia degli
italiani, sempre concentrati su sentimenti intestinali. La
testa è tutto il corpo del potere, e per consacrare
se stessa deve essere non solo rappresentazione del potere,
ma potenza in atto! Potenza sessuale, perché latto
del potere è sempre di natura esclusivamente sessuale,
seduttiva, fecondativa, stupratoria, onanistica. E la testa
italica non conosce pudore, non teme il ridicolo, anzi ne
è dimostrazione, soggetta a una perenne tentazione
di ostentare la sua foggia con orgoglio taurino. Non è
un caso che il super omuncolo italico scelga sempre il graffito
sconcio, il motto da osteria, per fecondare il proprio mito,
per declinare una scatologia quintessenziale della personalità,
ad uso e consumo di un pubblico di cui mastica bene aspirazioni,
gusti linguistici e culinari, di cui è espressione
e apotropaica estensione.
La testa fallica di quel tempo ha solo cambiato
generalità e feticci di corredo. Leffetto grottesco,
guardandosi in giro, resta lo stesso, e di teste italiche
così ne spuntano di continuo... e amano ancora frequentare
una certa Roma succintamente acconciata.
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